Il paese di Ferrera Erbognone spunta dalla pianura disegnato lungo il profilo della strada principale, un rettilineo che corre da Sannazzaro de’Burgondi fin quasi a Lomello, cuore storico della subregione nota come Lomellina.
Tra i pochi edifici storici sopravvissuti all’agricola povertà troviamo il campanile (torre d’avvistamento del X secolo), la chiesa e la casa comunale ben restaurata.
Nell’ufficio del sindaco c’è una riproduzione (grande, ma non quanto l’originale) del Quarto Stato di Pellizza da Volpedo.
Una copia di discreta qualità che grazie ad un’onesta riproduzione dei toni, offre uno squarcio sulla luce delle estati nella Valle del Po, sempre torride anche prima che il riscaldamento globale facesse notizia.
La polvere della terra si posa sui vestiti e sui volti dei contadini di Pellizza: fisionomie che possiamo ritrovare ancora oggi sotto un’acconciatura diversa o con un taglio di barba alla moda.
Del suo passato contadino Ferrera Erbognone conserva le risaie, le belle cascine e l’ultima giasèra, una ghiacciaia in mattoni utilizzata per conservare il freddo dell’inverno, sotto forma di neve, il più a lungo possibile.
Se oggi a Ferrera, come nel resto della pianura, non nevica quasi più, l’ultima giasèra riporta alla mente il tempo dei tabarri e degli zoccoli, del riposo del bracciante – inoperoso nei mesi bui – e della gran fame che – serpeggiando tra queste campagne – indusse allo sviluppo di una cucina di necessità seguita dalla volontà di render buono quel che c’era.
Oggi ritroviamo in tavola minestre d’erbe selvatiche, riso – quello si, abbondante – e grasse lumache d’orto cresciute tra la verdura.
Il piatto più caratteristico però ha la delicatezza delle delizie regali: i fiori d’acacia – raccolti sfidando le api che in maggio prendono d’assalto questi alberi – vengono pastellati e fritti, addolciti con miele.
Ogni fiore è una goccia d’oro nella bocca dei contadini del Quarto Stato, bramosi di pane e di rose.