Apparso sul finire del Cinquecento, il termine polena designa le statue antropomorfe o animali poste a scrutare l’orizzonte incerto sulla prua delle navi.
Un appellativo che deriverebbe da poulaine ovvero somigliante alle scarpette “alla polacca”, con la punta all’insù.

Questo vocabolo si installa saldamente nella nostra lingua in età Barocca quando, non a caso, si impongono i grandi velieri europei e, primi fra tutti, francesi. Proprio alla corte più splendente d’Europa, nasce il paragone con gli stivaletti polacchi.

Le polene d’età moderna sostituiscono – in epoca di grandi esplorazioni oceaniche – l’occhio apotropaico che ornava le imbarcazioni d’età antica e i demoniaci draghi vichinghi. Ora sono soprattutto figure umane – e principalmente di donna – a sfidare l’ignoto.

Si tratta di nobile artigianato navale, certo, la cui vicinanza ad espressioni d’arte è assai prossima: tra i più noti maestri d’ascia c’è Gotskalk Thorvaldsen padre di quel Bertel Thorvaldsen, maestro danese della scultura neoclassica, rivale del Canova.

Le polene si scolpiscono senza sosta fino a Ottocento inoltrato ma solo un’infinitesima parte di questo patrimonio artistico è giunto sino a noi, vuoi per incuria, vuoi per naturale degradazione del materiale.

A fronte di una sostanziale rarità, le magnifiche sculture conservate al Museo Tecnico Navale di La Spezia riportano in superficie voci dal fondo di un mare antico, procelloso, oscuro.

In una fantasia da raccoglitori di relitti, le polene di La Spezia squarciano l’oscurità nel fulgore dei loro legni chiari, d’una seducente bellezza.

Si narra che l’ufficiale tedesco Erik Kurtz, stregato – rapì la polena Atlanta, la portò in una camera d’albergo e si sparò. La stessa sorte toccò al falegname che la restaurò e a un custode del museo che, contemplandola ogni giorno, finì per impiccarsi di fronte a lei.

Oggi questa sinistra dea bianca osserva il visitatore, muta dall’alto del suo immoto stallo, nella bella Sala delle Polene del Museo Navale di La Spezia.